La vita del contadino

A cura di Michele Villa

La vita del contadino, immutata per secoli,  era all’insegna di stenti da quando veniva al mondo fino alla vecchiaia.  Quando nasceva una creatura era già  discriminante se fosse stato maschio o femmina. Se  maschio  già dall’età dei sei o sette anni poteva aiutare nei campi e man mano che cresceva  contribuire al bilancio della famiglia. Mentre, tra la povera gente avere una femmina era un problema: “Ul pà”  (il padre) già all’atto della nascita della bimba  pensava  a come avrebbe potuto darle una dote. Quasi che appena giunta in età da marito la si volesse   “desfesciare” (disfarsene) : una bocca in meno da sfamare. Una visione “maschile” perché la mamma era più contenta quando nasceva una bambina perché avrebbe potuto contare nell’aiuto che avrebbe dato in casa e non solo.

Nella vecchia Brianza si diceva: dona de tri man, dona de du man e  dona de una man. La donna di tre mani era quella che aveva più di dieci figli, la donna di due mani, quella che aveva oltre cinque figli e la dona di una mano era quella che aveva fino a cinque figli. L’appellativo “dona d’una man” spesso aveva il significato dispregiativo e significava una donna di poco valore perché aveva fatto pochi figli.

Fotografia tratta dal libro “Contadini dell’Alta Brianza”

Nel periodo dell’ allattamento alla mamma spettava il privilegio di avere una maggior razione del poco cibo su cui contava la famiglia: il bambino doveva crescere bene. Il bambino doveva crescere bene quindi seguiva il  periodo in cui la mamma si toglieva il pane di bocca per crescere bene la prole. (carna che cres la g’ha de mangià de spess).  Avere intorno un bambino piccolo che gattonava era un problema perciò lo si “immobilizzava” fasciandolo e lo si portava appresso. In dialetto bambino si dice “bagaj” che non a caso vuole dire bagaglio.

Arriva l’età in cui si deve andare a scuola. Nel  1877 la legge Coppino stabilisce un ciclo elementare di quattro anni. Ma le famiglie contadine hanno bisogno del lavoro  dei figli perciò l’ ordinamento scolastico prevede che si vada a scuola  tutti i giorni feriali, tranne il giovedì giorno in cui il bambino torna ad aiutare con piccoli lavori.  In passato per dare dell’ignorante ad una persona si diceva: “Te set ‘na a scola ul giuedì” . L’eta minima fisssata per il lavoro minorile era di nove anni. Allora a scuola si bocciava quindi l’istruzione rimaneva spesso incompleta. Nei mesi estivi c’era bisogno di tutta la mano d’opera dei componenti della famiglia. Quelle che nella scuola odierna sono lunghe vacanze estive, allora per bambini   era una “licenza” agricola. Anche in questo caso lo Stato prevedeva che si lasciasse l’abbecedario per andare nei campi.

L’adolescenza coincideva semplicemente con l’iniziare a lavorare a pieno titolo né più né meno come gli adulti.

I maschi, già all’alba erano nei campi, la sera a governare le bestie. In inverno  quando  c’era poco da fare in campagna   andavano a lavorare come stagionali nelle cave di argilla o di arenaria (fasevan ul paltè o ul pica prea) oppure migravano verso la città per “fare  giornata”. 

Fotografia tratta dal libro “Contadini dell’Alta Brianza”

Le ragazze lavoravano in casa. Lavorare in casa era pesante perché per  le giovinette  oltre a sbrigare le faccende domestiche significava essere indispensabili nel crescere i fratelli più piccoli e assistere gli anziani. In quanto donne badavano agli animali da cortile e andavano anch’esse  nei campi nel periodo della fienagione. Le donne erano impegnate nella cura  dei bachi da seta: i “cavaleè”, ovvero cavalieri. I bachi erano delicati e bisognava trattarli bene come se fossero dei cavalieri. Ciò che più spaventava le ragazze  era il duro lavoro in filanda che, spesso per la prima volta nella  vita, le vedeva lontane da casa.

Altra tappa era il raggiungimento della maggiore età. Ai tempi quale fosse la maggiore età è difficile dirsi. (una legge del 1882 conferiva il diritto di voto ai soli cittadini maschi che avessero conpiuto i 21 anni). Le ragazze introno ai sedici anni  iniziavano ad essere in età da marito. La famiglia sperava  che le figlie facessero  un buon matrimonio e per fare un buon matrimonio bisognava avere una dote. Tra la povera gente la dote di una  ragazza era fatta da lenzuola, asciugamani tovaglie  e pentolame. Rari erano i matrimoni d’amore. I matrimoni venivano combinati anche tra la povera gente. Infatti nel dialetto brianzolo non esiste la frase “ti amo” esiste il “Te vori ben”.   

I maschi si sposavano più in là con l’età. C’era la coscrizione militare che li teneva lontani da casa per un lungo periodo poi, un ragazzo robusto “pivelot” , dava un consistente apporto all’economia famigliare e quindi “dispiaceva”  lasciarlo andare.

 Poi la vita di queste persone continuava, tra le fatiche di sempre non subendo più variazioni tranne che per la nascita dei tanti  figli.

L’uomo, in particolare, non sta in casa che per mangiare e dormire. Nei giorni di festa, si bada solo al bestiame, si va a messa poi nel pomeriggio gli uomini  vanno all’osteria  e le donne si riposano andando in chiesa per qualche funzione. Così era la vita.

Cesare Cantù così stigmatizzava la vita della donna:  ” le villane dai baldanzosi fianchi mostrano fino al diciotto o venti anni le loro ingenue bellezze. Ma lo smodato lavoro, il cattivo mangiare, i maltrattamenti domestici le invecchia anzi l’ora; perduti i capelli, guasti i denti, ripiallato il corpo, ingiallita la pelle, le vedi con in collo qualche bambino striminzito, adoperarsi uggiose attorno alle faccende casalinghe, e nel loro melanconico sorriso leggi che intendono e insieme disperano d’uno stato migliore”.

Fotografia di Valentino Gigri Fumagalli

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